Mi ricordo quella scritta, incollata un poco storta sull’armadio del mio (uex ex) capo: “done is better than perfect”. Era la prima volta che leggevo questa frase. Se fossi un po’ più giovane (sigh) sicuramente l’avrei incontrata per la prima volta in qualche post motivazionale su Linkedin. E invece no, la prima volta che l’ho vista è stato nel mondo fisico, cinque parole di carta stampata attaccate dietro una scrivania.
Quelle parole stavano parlando a me, erano per me: un invito a lasciare andare il mio perfezionismo, sgarbugliarmi dai pensieri, arrivare al risultato anche se non era proprio come lo immaginavo. È stato un lavoro lungo, ancora work in progress, perché non è facile lasciare andare le cose, quando sei abituata a voler raggiungere il massimo.
Più di tutto, mi hanno aiutata due cose. La prima è stata la necessità di delegare, che mi ha obbligata ad accettare un risultato diverso da quello che avevo in mente. E va bene così: non esiste un modo perfetto di fare le cose, ognuno le fa a suo modo, l’importante è arrivare al risultato.
La seconda cosa che mi ha aiutata è stata la scarsità crescente, nel corso della mia vita, di tempo. Il mostro finale è stata la nascita di mio figlio, non nel senso che lui è un mostro, ma nel senso che mi ha obbligata a fare i conti in modo brutale con il fatto che il tempo è limitato: o finisco il task in 10 minuti, o non lo finirò mai più. Quindi meglio che in quei 10 minuti faccia il meglio che posso, e il resto lo lasciamo, appunto, ai perfezionisti.
[E se il task che ho da fare non riesco a concluderlo in 10 minuti? Lo scompongo. Prima avrei detto “non lo riesco a fare in 10 minuti, me ne servono 60, quindi non lo inizio neanche. Ora accetto il fatto che in 10 minuti posso farmi un’idea/raccogliere le info/buttare giù una prima bozza, e almeno la prossima volta non partirò da 0. E qui si potrebbero collegare tanti altri temi: la procrastinazione, la tecnica del pomodoro, ecc. ecc. Ma torniamo al perfezionismo.]
Dopo che in questi ultimi anni mi sono liberata del ho lavorato molto sul mio perfezionismo, ho potuto visualizzare meglio l’altra parte della frase: “done”, e cioè
La cultura del fare
La cultura del fare si sposa benissimo con il capitalismo. La gente soddisfatta non consuma, giusto? E allora: non accontentarti, fai di più. Hai ottenuto una promozione? Inizia a lavorare per quella successiva. Hai una bella macchina? Punta a quella più grande. Hai fatto 50km con Strava? Spingiti più in là. Hai una media di 8.000 passi al giorno? Arriva a 10.000, ne gioverà la tua salute.
La cultura del fare è anche molto maschile. Negli uomini sono più attivi archetipi* come quello del Guerriero (competizione, lotta) e del Cercatore (ricerca, esplorazione). Le donne fanno, ma in un modo diverso: a prevalere sono l’Angelo Custode (altruismo, cura dell’altro) e il Creatore (intuitizione, innovazione). L’uomo, il MANager, è quello che fa; la donna, è quella che tira le fila / ricuce in silenzio (e infatti fino a 20 anni fa era difficile trovare donne in posizioni apicali, che non fossero in ambito amministrativo o di risorse umane). Oggi le cose stanno cambiando: ci sono donne a gestire progetti, team di lavoro, se non a capo di intere società, ma è ancora difficile scalfire la cultura del fare. Chi è arrivato dopo (le donne) spesso si è adeguato a quello che era il clima dominante.
Ovviamente il discorso sarebbe più complesso di così, e in queste poche righe sto rischiando di banalizzarlo. Se ti interessa approfondire il discorso sugli archetipi, ti consiglio il libro Risvegliare l’eroe dentro di noi (Awakening the Heroes Within) di Carol S. Pearson. Gli archetipi rappresentano diverse fasi del viaggio dell’eroe e aspetti della personalità umana. Possono essere utilizzati per comprendere meglio la psicologia individuale, la crescita personale e anche per la creazione di storytelling e branding.
Per arrivare al punto… non ce l’ho con la cultura del fare, per carità. Nessun’azienda vorrebbe restare impaludata nel perfezionismo, o, peggio ancora, nella staticità. Il problema è quando si fa senza prima fermarsi a pensare: senza tenere in considerazione un business plan, una strategia, un budget, una timeline, le persone da coinvolgere in un progetto.
Quante volte mi sono trovata a che fare con (o mi è capitato di sentire di) aziende che) “partiamo, poi vediamo”. Quella volta che mi avevano assunta in stage, ed erano tutti contenti, e poi non c’era il budget per rinnovarmi (e intanto tu azienda hai perso 6 mesi a formare una risorsa). Quella volta che “facciamo il nuovo sito” appena entrata in azienda, senza che nemmeno conoscessi il loro business, ed è venuta fuori una cosa totalmente disallineata agli obiettivi di vendita (a mia discolpa: ero più inesperta, oggi l’avrei fatto notare). Quella volta che “lanciamo il nostro eCommerce perché le vendite su Amazon vanno bene” senza pensare che poi devi spendere soldi per portarci traffico, al tuo eCommerce.
Il numero di aziende che si muove senza una strategia è inversamente proporzionale al numero di corsi di management che ci sono in giro.
Ci sono ambiti in cui questo approccio diventa ancora più rischioso, ovvero quando il progetto riguarda infrastrutture informatiche. Un errore nella scelta dell’infrastruttura del tuo sito oggi, può significare dover rifare tutto domani. Non ragionare sugli obiettivi per i quali hai adottato un CRM può portare ad uno strumento inutilizzabile nel giro di poco tempo. Optare per la versione low-budget di un software può significare fare parte del lavoro a mano, con un extra costo in termini di risorse.
Sono tutte situazioni che si possono evitare facendo un passo indietro, fermandosi a pensare, e guardando il quadro d’insieme. Poi sì, lanciamoci e iniziamo a fare, lasciando a casa il perfezionismo estremo. Ma occhio a non dimenticare strategia, business plan, budget, obiettivi.
Done (con criterio) is better than perfect.
Cose belle viste in giro
Le ultime settimane sono state toste, con il nano di nuovo malato, e io pure. Niente box dei link extra dunque, torneranno tra due settimane!